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30 ottobre 2016

La zucca di Cenerentola




Come Cenerentola arrivo quasi allo scadere con la mia proposta per onorare il blog di  Maria Pia La Apple Pie di Mary Pie, vincitrice di The Recipe-tionist di settembre.
Come nella celebre storia una zucca si trasforma ed il risultato è una crema ricca sfiziosa.
Non potevo non scegliere la zucca, la amo e adoro cucinarla, in questo periodo poi siamo in piena produzione ed è veramente difficile resisterle.

L'unica modifica fatta alla ricetta, è la sostituzione del formaggio, ho utilizzato il Cheddar invece della fontina

Quindi per Maria Pia

Zuppa di zucca, arancia e zenzero

Ingredienti per 1 persona

200 g di zucca mondata
250 ml di latte intero
50 g di cipolla mondata
15 g di burro
1 chiodo di garofano
Sale
50 g di Cheddar
1 fetta di pane di segale
10 g di burro



Procedimento:

Sciogliere il burro in una casseruola dal fondo pesante e farlo intiepidire.
Tritare finemente la cipolla e metterla nella casseruola; accendere la fiamma al minimo sul fornello piccolo e farla stufare dolcemente per 6-7 minuti, finché sia diventata trasparente.
Unire la zucca tagliata a dadini di circa 1 cm di lato e farla insaporire nel soffritto per qualche minuto, quindi coprirla con il latte, aggiungere il chiodo di garofano, salare leggermente e alzare la fiamma per portare il tutto a ebollizione.
Abbassare poi la fiamma e proseguire la cottura fino a quando i cubetti di zucca saranno quasi sfatti.
Eliminare il chiodo di garofano e frullare il tutto per ottenere una crema omogenea.

Nel frattempo tagliare il pane a dadini e farlo asciugare in forno a 150 °C per una mezz'oretta (se programmate la crema in anticipo, fateli asciugare all'aria per 24 ore).
Fondere il burro in un padellino e quando sarà spumeggiante aggiungervi i dadini di pane, facendoli rosolare brevemente.
Tagliare il Cheddar a fettine sottili oppure tagliuzzarla a piccoli pezzi.

Disporre i crostini in un piatto fondo e cospargerli con il cheddar.
Versarvi la crema bollente e servire.





Con questa ricetta partecipo a The Recipe-tionist del mese di ottobre.




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29 ottobre 2016

Alla scopera dei fagioli Gialét



Oggi per il Calendario del Cibo Italiano AIFB si onorano i fagioli, uno dei legumi che preferisco e importante per tutta l'alimentazione mondiale tanto è vero che questo 2016 è stato proclamato anno mondiale dei legumi dalla FA. Ambasciatrice di questa giornata così importante è Elena Broglia leggete qui il suo post.

Oggi invece della solita ricetta ho pensato di farvi conoscere i fagioli Gialét, fagioli tipici della Val Belluna, me ne ha parlato Laura Solinas, esponente di spicco di SlowBeans e produttrice di fagioli Gialét.



Cosa sono i fagioli gialet e perchè ha deciso di riscoprire questo prodotto ?

Il fagiolo gialét è un fagiolo dal gusto delicato e dalla buccia che non si fa sentire. Di grande versatilità e ricercatezza, da sempre riservato alle occasioni importanti o a destinazioni speciali quali Città del Vaticano.
Coltivare gialét è stata una scelta naturale alcuni anni fa, quando ho rinnovato l’impostazione della azienda Agricola che conduco: da produttrice di commodities a promotrice di buon cibo a rischio di abbandono.
Avevo poca esperienza sui legumi, cibo che non aveva un ruolo di rilievo nelle abitudini alimentari della mia famiglia, e ho voluto approfondire non solo le tecniche colturali ma anche gli aspetti legati alla cultura e alla tradizione locale, al gusto in rapporto a legumi più o meno affini.
E tra curiosità e approccio scientifico sto imparando molto, e mi fa piacere condividere quel che so.




Dove vengono coltivati ?

Il gialét era ed è coltivato tradizionalmente in ValBelluna, e – soprattutto un tempo - in alcune aree montane della provincia, Valle di Cadore ad esempio.
In Italia solo nella vicina provincia di Udine in pochi paesi si trova questo fagiolo, con nome diverso e senza significativa commercializzazione.
Pare che siano proprio i suoi luoghi di elezione: tentativi di coltivarlo poche decine di km a valle hanno dato risultati pessimi, vuole proprio le nostre notti estive fresche!

Quali sono i passaggi principali della coltivazione e le difficoltà maggiori?

Il gialét è un fagiolo rampicante, come la maggior parte di quelli tipici delle zone montane: richiede quindi un certo impegno nell’impianto con i tutori che ora sono per lo più di bambu. Qualcuno continua a praticare la consociazione con il mais, diffusa già nel centroamerica da dove provengono sia mais che fagioli. I problemi colturali sono
  • difendersi da chi ama i fagioli come e più di noi: le limacce nelle prime fasi, poi lepri e caprioli e cervi. Questi sanno diventando una vera piaga, ed è piuttosto costoso recintare tutto, con reti alte visto che saltano agevolmente 2m.
  • vermi, insetti e afidi sono abbastanza facilmente controllabili con buone pratiche:
il sovescio (subito prima dei fagioli coltivare una pianta che cresce velocemente, tappezza il terreno e repelle i vermi nematodi come la senape bianca, interrandola prima che fiorisca in modo che fornisca anche nutrimento ); la tutela e il richiamo di insetti utili quali coccinelle, crisope, fitoseidi che mangiano o parassitizzano.
Qualcuno usa repellenti e coadiuvanti e rinforzanti delle difese della pianta, come i macerati di ortica o di equiseto, l’estratto di semi di pompelmo. In casi estremi facciamo ricorso a principi ammessi in agricoltura biologica quali l’estratto dell’olio di neem.
Purtroppo un virus, che può arrivare dall’ambiente soprattutto attraverso le punture di assaggio degli afidi, rimane nel germoplasma trasmettendosi alle generazioni succcessive. Ecco perché noi dell’Associazione per la tutela facciamo molta attenzione a selezionare in campo le piante da seme, sane e senza sintomi, prima ancora di fare la usuale selezione volta a mantenere i caratteri distintivi dell’ecotipo.
Rispetto ad altri fagioli impegnamo molta più manodopera per la raccolta, dato che il gialet matura scalarmente e quando il baccello è secco si apre rilasciando i semi a terra. _Dobbiamo quindi passare 1-2 volte a settimana, da metà settembre a fine ottobre. Poi si deve finire di far seccare i baccelli al sole (visto che non si possono raccogliere totalmente secchi). La pulizia e la selezione sono laboriosissime, data la piccolezza del gialet. Ma alla fine proponiamo semi belli da vedere oltre che sani!
Oltre ai parassiti animali dobbiamo prevenire le malattie fungine e le batteriosi. Lo facciamo curando molto il terreno, le successioni con colture che non condividano (ad esempio, in luoghi umidi è sconsigliato mettere fagioli dopo le patate. La precessione ideale è un cereale a paglia, varie altre strategie sono possibili. In caso di piogge ripetute usiamo composti di rame, che funzionano piuttosto bene proprio in prevenzione. È importante perché il gialét è piuttosto sensibile alla ruggine, e se questa si manifesta quando la pianta inizia a fiorire la produzione cala drasticamente per l’incapacità della pianta di fare sufficiente fotosintesi, a causa delle foglie malate con poca superficie verde utile.
Anche terminato il raccolto si attua una difesa con mezzi “doli” ovvero portando alcuni giorni i fagioli a -20°C. I fagioli sono ben secchi, e questo non influisce sulle loro caratteristiche organolettiche né sulla germinabilità. In compenso si inattiva il tonchio, uova comprese: è un piccolo coleottero che a temperatura ambiente si ciba dei fagioli, e si riproduce fino a lasciare … più buchi che sostanza!
La selezione manuale che segue, per eliminare fagioli macchiati, è molto impegnativa data la piccola dimensione. Una volta svolta a tempo perso soprattutto dalle donne anziane (ma ci vogliono buoni occhi!) ora è una delle criticità per la dedizione e il tempo che richiede. Esperimenti fatti con una selezionatrice ottica non hanno dato i risultati sperati, d’altra parte fino a che non si velocizzerà questa fase i coltivatori non vorranno aumentare le aree coltivate, dopo coltivazione e raccolto - che già sono impegnativi - ci vuole un’ora di lavoro, divisa in almeno 5 fasi, per arrivare a una confezione da 1 kg di gialét.
In estrema sintesi, per chi coltiva gialét presidio SlowFood l’imperativo del “pulito” si traduce in maggiori controlli e maggior competenza, il che …porta valore al territorio! Inoltre ci siamo resi conto che se da un lato la presenza di tanti nuclei di coltivatori sparsi per la vallata è una ricchezza, nel corso dei decenni alcune buone pratiche



Cos'è il progetto Slows Beans e che importanza riveste ?

Con SlowBeans si è voluto dar vita a una rete che condivide valori, dove ci si confronta e ci si aggiorna e ci si sostiene in vario modo. Siamo tutti rappresentanti di una qualche eccellenza, tuttavia vogliamo dare il messaggio del valore della diversità e del legame con culture e territori.
Emblematico è il fatto che proponiamo la “zuppa di slowbeans” con ingredienti e proporzioni sempre diversi, il buono è nell’insieme. E che portiamo in giro la cesta della biodiversità leguminosa, facciamo vedere la ricca e bella varietà di un paniere di legumi presidio.
Per inciso, una zuppa di legumi-presidio è stata inserita nel menu degli astronauti che la hanno molto apprezzata, come ha esplicitato Samantha Cristoforetti.
http://slowfood.com/terramadreday/pagine/ita/pagina3.lasso?-id_pg=119
(intorno al minuto 1)
http://www.repubblica.it/scienze/2015/05/29/news/cibo_spaziale_per_terrestri_la_cena_di_astrosamantha_sbarca_sulla_terra-115498482/

Ci troviamo in manifestazioni targate Slows Beans, e ogni anno organizziamo le fagioliadi: una gara semiseria ove cuciniamo noi produttori, e ci proponiamo come “conoscitori a tutto tondo” dei nostri legumi.
A dicembre 2014 il gialet ha vinto, ne siamo stati felici e orgogliosi. Ma prevale il piacere di sperimentare e gustare cibi della tradizione in ricette innovative adatte alla cucina famigliare .
Dopo alcuni anni di mirabile organizzazione a cura della condotta SlowFoood di Lucca lo scorso anno siano stati ospitati a Orvieto. Quest’anno, anno internazionale dei legumi, Slow Bean sarà presso il MUSE di Trento, che ha realizzato un bell’orto-catalogo di legumi e organizzerà vari eventi scientifici e di intrattenimento per l’occasione.



Questo è l'anno mondiale dei legumi, che importanza ha questo alimento nel mondo ?

I fagioli sono il secondo legume più coltivato al mondo, dopo la soia che però è in gran parte destinata a cibo per animali.
In Paesi come il Brasile si consumano fagioli con la frequenza della pasta da noi, e il governo ha recentemente lanciato inviti a diversificare di più le abitudini tra i vari tipi disponibili, in modo da attutire l’impatto economico di periodi di siccità in aree legate a singole varietà, che hanno portato a impennate di prezzi e aumenta la necessità di importazione, nonostante il Brasile sia il secondo maggior produttore mondiale con circa 3milioni di tonnellate/anno, i 2/3 dell’India e il doppio della Cina.
In Asia (India, Cina, Corea, Myanmar) i legumi sono cibo quasi quotidiano, anche sotto forma di germogli, di salse fermentate, di “formaggi” vegetali, di preparazioni dolci. In Africa (Tanzania, Angola, Camerun) si producone e consumano legumi, purtroppo con insufficienti o assenti strategie per eliminare i piccoli insetti quali il tonchio del fagiolo che distruggono le provviste.
La FAO e le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2016 anno internazionale dei legumi per promuoverne il consumo, che fa bene alla salute e alla terra.
I legumi, gustosi e poveri di grassi, sono economici: anche i più costosi sono concorrenziali rispetto alle proteine animali. Inoltra richiedono molta meno acqua: neanche un decimo rispetto a carne di pollo, un quarantesimo rispetto alla carne bovina. Anche la necessità di terra è ridotta, un pasto di cereali e legumi richiede 1/7 del terreno richiesto da un pasto animale. E non produce gas serra, come fa l’allevamento che secondo il World Watch Institute ne è responsabile del 13%. Inoltre i legumi fanno bene al suolo perché ospitano in simbiosi batteri capaci di utilizzare l’azoto atmosferico, lasciando i campi arricchiti senza ricorrere a concimazioni chimiche.
I dietologi li consigliano come fondamentali in una dieta equilibrata, e considerano con interesse il loro basso indice glicemico.

In Italia che importanza diamo ai legumi ?

In Italia il consumo di legumi è calato dell’81% dal  1961 al 2015, anche se dal 2011 c’è qualche accenno di crescita. (fonte: confagricoltura-ISTAT).
Insomma, dobbiamo recuperare!
Eppure ci sono regioni come la Toscana e il Veneto che sono state la culla di diffusione dei fagioli centroamericani in Italia, nel ‘500. In Valbelluna negli orti famigliari si coltivano una quarantina di varietà localmente adattate di fagiolo, ma la commercializzazione è ristretta a Fagiolo di Lamon IGP e gialét – Presidio SlowFood, con qualche segnale di crescita per i fagioli “prodotto Agricolo Tradizionale”, quali Bala Rossa, Bonel, Mame dell’Alpago.
Non dimentichiamo poi che in Italia, da ben prima dell’avvento dei fagioli portati da Cristoforo Colombo, ovunque era già consumata una gran varietà di altri legumi: piselli, ceci, lenticchie, cicerchie, lupini, fagioli dall’occhio.
Ora la produzione maggiore di fagioli secchi italiani si concentra in Piemonte (soprattutto borlotti), che da solo produce quasi quanto il resto d’Italia, e in Calabria. Si tratta di quantità piccole, parliamo di circa 6000 t in Piemonte e qualche centinaio nelle regioni pure vocate come Campania, Veneto, toscana, Abruzzo.



Ma non ci sono solo i fagioli, abbiamo un fantastico serbatoio di biodiversità leguminosa legata a tradizioni ancora abbastanza radicate, che sarebbe un vero peccato perdere.
Di lenticchie si trovano tuttora tanti tipi, dal gusto e dagli usi diversi.
Tra i piselli – in Veneto non si può dimenticare “risi e bisi“ oltre a quelli “da supermercato” se ne trovano negli orti di montagna di colori particolari quali il nero e il grigio, adattati a condizioni climatiche dure.
Le fave, anche fresche, resistono al Sud e in Liguria ma secche sono quasi abbandonate: eppure se ne farebbero ottimi polpettoni!
Grazie alla determinazione di una donna, Silvana Crespi, si è ripreso a coltivare e consumare la Roveja, o rubiglio: un pisello selvatico molto saporito, con la cui farina si preparano deliziose creme e polentine.
La cicerchia, simile a un cece ma col gusto meno marcato, sta riacquistando estimatori; il suo abuso un tempo provocava il latirismo, ora potremmo ben utilizzarla per variare le zuppe di legumi.
Una sottospecie di cicerchia legata al Cilento è il maracuoccio, base di saporitissimi crostini. Un risultato interessante scaturito dalle ricerche nutrizionali sui nostri legumi localmente adattati è che in genere sono più ricchi di sostanze benefiche dei corrispettivi commerciali. Si tratta di spunti da approfondire, che inviterebbero a perseguire la strada della riscoperta e ricommercializzazione di varietà locali anche dai piccoli numeri, ma dal grande gusto !

Insomma, l’invito è a sbizzarrirsi in cucina usando più legumi, a beneficio di gusto e salute, provando dai ripieni della pasta alle polpette vegetali alle paste e fagioli asciutte, alle zuppe, e perché no anche a qualche ricetta dolce di ispirazione orientale  o di italica fantasia, che si può osare con i fagioli più delicati.
Una volta che ci si è abituati a organizzarsi mettendo in ammollo i legumi il giorno prima, il gioco è fatto e si potranno riscoprire tanti gustosi tesori dei nostri territori.





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25 ottobre 2016

Paccheri con pesto di foglie di ravanello


Potrebbe sembrare un piatto estivo, ma chi come me ha la fortuna di avere un piccolo orticello, sa benissimo che il ravanello lo si semina in piena terra a fine agosto e dopo circa 60 giorni lo si può raccogliere. Di norma utilizziamo solamente la radice. Le foglie, invece, sono ottime per preparare un semplicissimo e buonissimo pesto, abbinate a dei formaggi stagionati e a della frutta secca.

A decorazione gli ultimi fiori di zucchina, prima di essere "sfrattati" dall'orto per dare spazio alle coltivazioni invernali. 

Oggi festeggiamo grazie al Calendario del Cibo Italiano di AIFB, la giornata nazionale della pasta. Madrina d'eccezzione la bravissima Tamara Cinciripini del blog Perle e Ciambelle.

Io ho utilizzato dei paccheri rigati di Gragnano. Un connubio perfetto.

Oggi la pasta la si festeggia, anche, a livello mondiale (World Pasta day), e a quanto sembra diventa addirittura maggiorenne, visto che sono trascorsi 18 anni dalla prima edizione di Napoli, la quale ha fissato come data proprio il 25 ottobre per celebrare questo meraviglioso alimento, simbolo della dieta mediterranea. Da allora, la pasta ha avuto un aumento di produzione del quasi 57%, passando da 9,1 a 14,3 milioni di tonnellate.

La città che quest'anno ospiterà eventi e manifestazioni in onore della Pasta sarà Mosca, pertanto a sigillo di queste due grandi nazioni il cavallo di battaglia dell'Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane hanno recuperato una ricetta must degli anni '80, la pasta alla vodka. Ricetta ricercata sopratutto negli Usa, dopo quella della pasta alla bolognese.


Ingredienti:

160 gr di foglie di ravanello;
50 gr di parmigiano reggiano a pezzi;
100 gr di Asiago stravecchio di malga;
80 gr di noci;
olio extravergine di oliva q.b.
sale q.b.

320 g di pasta;
sale grosso.

Procedimento:

Lavate accuratamente le foglie di ravanello ed asciugatele con un canovaccio e riponetele all'interno della ciotola del mixer.  Aggiungete i formaggi spezzati grossolanamente, le noci, un pizzico di sale e l'olio extra vergine di oliva a filo, fino ad ottenere una crema omogenea, simile al pesto genovese.

Nel frattempo portate a bollore l'acqua. Salatela e buttate la pasta. Scolatela al dente mi raccomando e conditela con il pesto appena preparato. Decorate a piacere e servite.

Buon appetito.

Marianna




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23 ottobre 2016

Empire State of Mind



Non c'è niente che tu non possa fare se sei a New York



Parafrasando la celebre canzone di Jay Z feat. Alicia Keys...è proprio così che mi sono sentita quando sono arrivata a New York.
Avrei potuto fare di tutto e di più, il senso di libertà che si respirava per le strade, la voglia di scoprire ogni angolo e finalmente un desiderio che avevo fin da ragazzina che si avverava.

Un dedalo di strade che si intersecano, grattacieli altissimi, luci, ristoranti, locali.
La moltitudine di gente che andava e veniva.

Tutti prima di partire mi hanno detto....vedrai resterai delusa, perchè l'hai vista in tanti film ti sembrerà scontata.
Ero adolescente quando iniziava Sex & The City e mi immaginavo camminare per le strade per andare ad incontrare le mie amiche per un brunch o aperitivo. New York è il palcoscenico per eccellenza. Ero incollata alla TV per vedere gli US Open di Tennis, alzandomi in piena notte per seguire i miei beniamini.



Molti gli scrittori che hanno contribuito a orientare l’immaginario collettivo su questa città.
Le mille luci di New York romanzo dello scrittore statunitense Jay McInerney. Qui viene descritta la città dei locali malfamati del Lower East Side, locali frequentati dal protagonista in preda a crisi depressive per la perdita della moglie.
Colazione da Tiffany di Truman Capote che ha reso le vetrine di Tiffany le più famose di New York (complice anche il film con Audrey Hepburn).
Solo per citarne qualcuno.



Non vi so spiegare perchè la mia voglia di andare in questa città sia così immensa, talmente ne ho nostalgia che abbondonerei l'Italia per andare a viverci.
Ho fatto viaggi meraviglio in paesi da sogno, ma questo...questo era il viaggio che sognavo da sempre.

Il viaggio in macchina che dall'aeroporto di Newark nel Jersey mi ha portato in città, l'ho fatto con il naso incollato al finestrino per non perdere nemmeno un attimo....e quando finalmente ho messo piede a Manhattan, in un baleno ho letteralmente mollato in camera le valigie e sono partita alla scoperta della città con il naso all'insù.
Dopo 2 giorni la giravo come le mie tanche tant'è che i turisti mi fermavano per chiedermi delle info....i miei compagni di viaggio ovviamente si piegavano in due dalle risate, a me poco importava.

Non sentivo la fatica del camminare, non sentito il traffico e il caldo...volevo solo godermi la mia amata città.

E poi l'indimenticabile cena all'Esca di Joe Bastianich non ha prezzo, lo chef mi ha regalato un piccolo momento indimenticabile.



Viaggio che comunque si ripeterà a Marzo per esplorare tanto ancora che non potuto vedere la prima volta.

Quando Mai del blog Il Colore della curcuma ha proposto la sfida per la sfida n. 60 di MTChallenge e cioè las Tapas, ero inizialmente perplessa, non sapevo proprio che fare, avevo mille idee in testa...



Con il passare dei giorni e avendo sempre dentro di me questa malinconia newyorkese ho deciso di dedicare a questa città un omaggio con alcuni dei piatti che l'hanno resa celebre e che naturalmente ho mangiato durante il mio viaggio.




E allora tutti a bordo di un taxi giallo, vi accompagno in questo immaginario viaggio nel cuore della "mia" New York, tra bagels, meatballs e macaroni cheese o come dicono qui mac ‘n’ cheese.
Dall'Upper East Side a Brooklyn, dal Village a Lower Manhattan
E non ci dimentichiamo di accompagnare il tutto con un ottimo Cosmopolitan, quale altro cocktail potevo scegliere se non quello bevuto dalle protagoniste di Sex & The City ?




Il bagel (in polacco bajgiel, in yiddish בײגל (beygl) è una pasta lievitata, a forma di grosso anello, bollita brevemente in acqua e poi cotta al forno.
È incredibile come da un panino così piccolo e semplice siano derivate mille e mille variazioni, dolci e salate, vegetariane, vegane o tradizionali. La sua pasta morbida e leggermente salata si sposa con gli ingredienti più disparati. Questo umile e versatile street food vanta un pedigree di tutto rispetto: se ne trova già traccia in alcuni documenti del 1600, in Polonia. In seguito, dai ghetti ebraici, si muove verso gli Stati Uniti, in particolare sulla East Coast grazie all'emigrazione del dopoguerra: qui incontra il successo popolare, si arricchisce e si trasforma in quel sandwich ricco e appetitoso che conosciamo oggi. 
È un pane che si utilizza in tutti i paesi dove esiste una comunità ebraica aschenazita. Di fattura molto semplice, sono stati portati negli USA dagli immigrati polacchi. La produzione di questi pani è diventata popolare negli Stati Uniti, Canada e Regno Unito e Germania, soprattutto nelle grandi città con popolazione ebraica, come Montreal, New York e Toronto e ognuna di esse ha un modo particolare di preparare il bagel.

Il bagel è denso interiormente e rosolato all'esterno; può essere al naturale o aromatizzato con semi di papavero, di cumino o di sesamo. Alcuni bagel vengono cosparsi di sale sulla crosta.


Ingredienti per 6 Bagel

400g Farina tipo 1
50 g di Farina tipo pane 0 o manitoba
2 cucchiaini di Lievito di birra secco o 10 g di lievito di birra fresco
1 cucchiaio di Zucchero semolato
1 cucchiaino di Sale
280-300 ml di Acqua tiepida (la quantità dipende dal tipo di farina...)
1 Tuorlo

Per la farcia 2 Bagels
100 g di Salmone affumicato
100 gr di Philadelphia

Sale, pepe
olio evo
mezzo lime


Procedimento per i Bagel
Versare la farina in una ciotola (non setacciare la farina integrale!), aggiungere lo zucchero, il lievito e il sale, a poco a poco versando acqua tiepida, ma non calda, cominciare ad impastare.
Quando l'impasto sarà omogeneo e sodo, metterlo in una ciotola leggermente unta d'olio, coprirlo con pellicola e lasciarlo in un luogo caldo a lievitare per 1 ora e mezza circa.
Togliere l'impasto dalla ciotola, spolverare con farina il piano di lavoro, stendere l'impasto con un mattarello e dividerlo in 6 parti, da ciascuna di esse formare una pallina, leggermente schiacciata (con un diametro di 7-10 cm). Mettere ogni pallina su una teglia foderata con carta da forno.
Creare un buco al centro aiutandosi con un coppa pasta e allargando il buco tirando verso l'esterno con un dito, coprire con un panno e far lievitare in un luogo caldo per 30 minuti.
Riempire una pentola capiente di acqua, aggiungere un cucchiaio di zucchero, quando l'acqua inizia a bollire mettere i bagel e bollire per un minuto su ogni lato, quando sono pronti scolarli e metterli su una griglia ad asciugare (ci si può aiutare tamponando con un tovagliolo di carta).
Scaldare il forno a 200 °C.
Spennellare la superficie dei bagel con il tuorlo e cospargere, cuocere per 15-18 minuti fino a doratura.
Sfornare e lasciar raffreddare su una griglia da cucina.
Potete aggiungere prima di informare i semi di papavero, sesamo, ecc...io per questa versione ho preferito la versione senza.
In una ciotola mescolare il philadelphia e qualche goccia di lime.
Taglia 1 bagel e farcire con la crema di Philadelphia e delle fette di salmone affumicato.




Negli Stati Uniti gli spaghetti con le polpette al sugo sono uno dei piatti tipici.
L’origine di questo piatto viene attribuita agli emigrati italiani che andarono a cercare fortuna oltreoceano fra la fine del Diciannovesimo secolo e i primi anni del Novecento. Erano persone poverissime, che si stima spendessero ben il 75% del loro reddito in cibo, a fronte di uno stato di scarsa nutrizione. Negli Stati Uniti grazie al lavoro, la ricchezza e la disponibilità economica di queste famiglie migliorò e la carne entrò nella dieta quotidiana.  Spaghetti e pomodori in scatola erano fra i pochi alimenti italiani che tutti si potevano permettere e presto detto, il classico piatto di spaghetti al pomodoro si arricchì con il taglio più economico di carne disponibile. I meatball spaghetti sembrano essere nati essenzialmente così.
Per questa sfida ho voluto preparare le famose meatballs al sugo...ne ho fatto scorpacciata a NY durante il mio viaggi.

Meatballs al sugo
Ingredienti per 10 polpette (il numero varierà in base alla grandezza delle polpette)
500 gr di polpa di manzo, vitello, maiale, salsiccia, macinata
1 uovo
100 gr di parmigiano reggiano grattugiato
100 gr di pane grattugiato
Sale e pepe
250 gr di passata di pomodoro
100 ml di brodo vegetale
Olio extra vergine di oliva
1 mazzetto di prezzemolo tritato
1 spicchio d'aglio tritato
noce moscata

Procedimento
Impastare il macinato con uovo, parmigiano, pane grattugiato, prezzemolo, aglio, sale e pepe e una grattugiata di noce moscata.
Formare delle piccole palline di circa 1 cm di diametro. Adagiarle su un piatto e metterle in frigo a riposare per circa 30 min.
In una padella scaldare l’olio extra vergine di oliva aggiungere le polpette e farle rosolare.
Appena saranno leggermente rosolate aggiungere la passata di pomodoro e il brodo vegetale se necessario.
Far cuocere per circa 15 minuti avendo cura di far evaporare il liquido in eccesso.
Regolare di sale e pepe.





Macaroni and cheese, chiamati anche mac ‘n’ cheese è un piatto della tradizione americana.
Il piatto consiste in un timballo di pasta condita con una salsa besciamella in cui vengono sciolti formaggi quali cheddar e parmigiano, il tutto viene passato al forno per creare una pasta cremosa con una bella crosticina dorata in superficie.

Ricetta tratta da Buon appetito America! di Laurel Evans
Ingredienti
85 gr di burro
65 gr di farina
1 lt. di latte caldo
120 gr di panna fresca
250 gr di cheddar, Tete de Moine o Gruyère grattuggiati
200 gr di pecorino romano grattugiato
250 gr di maccheroni
1 cucchiaino raso di sale kosher (io sale di Cervia)
1/4 di cucchiaino di noce moscata grattugiata al momento
1/4 di cucchiaino di pepe nero macinato al momento
1/4 di cucchiaino di pepe di Cayenna
sale

Scaldare il forno a 180°C. Fondere il burro in una casseruola media su fuoco medio. Quando il burro inizia a spumeggiare, unire la farina e cuocere, mescolando, per un paio di minuti. Poi versare lentamente il latte caldo, sbattendo.
Portare ad ebollizione continuando a mescolare, poi lasciare sobbollire sempre continuando a mescolare per circa 3 minuti.
Togliete dal fuoco. Unite la panna, il sale (se necessario), la noce moscata, il pepe nero, quello di Cayenna e circa 3/4 dei formaggi. Mettere da parte.

Cuocete i maccheroni al dente in una pentola d'acqua salata, due minuti meno di quanto indicato sulla confezione. Scolare e tenere da parte un mestolo d'acqua di cottura.
Mescolare i maccheroni, l'acqua di cottura e la salsa al formaggio, in una ciotola capiente.
Trasferire in una pirofila imburrata o in cocottine individuali.
Cospargere con il formaggio rimasto e cuocete in forno per 20/25 minuti, finchè il gratin è dorato e il formaggio ribolle.



Cosmopolitan
Ingrdienti per 1 bicchiere
4 cl di vodka
1,5 cl di triple sec
1,5 cl di succo di lime
3 cl di succo di cranberry

Procedimento
Miscelare tutti gli ingredienti nello shaker con ghiaccio, agitando bene, filtrare in una doppia coppa cocktail precedentemente raffreddata. Guarnire con una fettina di lime










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22 ottobre 2016

Coniglio in umido




Una grandissima preparazione della cucina italiana, il coniglio in umido: l'abbiamo cucinato a 4 mani io e Lidia del blog The Spicy Note e ne abbiamo parlato per il Calendario del Cibo Associazione Italiana Foodblogger.


La preparazione della carne di coniglio fa parte della tradizione italiana, ma sulle tavole dei nostri giorni non è una presenza che si trova regolarmente, a favore di altre carni bianche più comuni come pollo e tacchino. Questo è un peccato, perché è molto magra e povera di colesterolo e sodio oltre che digeribile e leggera: ricca di potassio, ferro e calcio, è ottima nell’alimentazione dei bambini.

Originario dell’Africa, il coniglio venne successivamente introdotto in Francia e in Italia. Il nome (dal latino cuniculus) fu coniato da Catullo che si ispirò all’abilità dell’animale nello scavare tane fatte da grotte e cunicoli. Inoltre è da sempre considerato il simbolo della fecondità: una coniglia femmina può dare alla luce fino a 90 cuccioli all’anno ed anche per questo motivo, sotto l’Impero Romano, questo animale assunse un’importanza notevole e cominciò così ad essere allevato a fini alimentari.

Gli allevamenti si rivelarono estremamente produttivi e poco costosi: a differenza dei polli, i conigli non avevano un’alimentazione competitiva con quella dell’uomo e si accontentavano dell’erba, pure quella meno pregiata. In cambio, erano molto prolifici, assicurando nidiate numerose ogni due mesi, contro la covata annuale delle galline.



Il coniglio si distingue in due diverse varietà: quello domestico, definito “coniglio da carne”, che comprende diverse razze con carni magre e sode, e quello selvatico, molto più piccolo, che spesso non raggiunge il chilogrammo di peso. Il coniglio selvatico è diffuso in Francia, Spagna, nei paesi dell’Europa centrale e nelle isole mediterranee. In Australia è stato introdotto con (troppo) successo e oggi tende a infestare l’ambiente. Dal punto di vista culinario le carni del coniglio selvatico sono da considerare “nere”, per cui valgono tutte le indicazioni e le raccomandazioni della lepre. Per quanto riguarda i tagli, essi non differiscono da quelli del coniglio domestico.
La lepre, invece, si distingue dal coniglio selvatico per aver orecchie molto sviluppate e zampe posteriori molto più lunghe delle anteriori e perché vive solitaria (massimo in coppia) in terreno aperto. La caccia e la coltivazione dei terreni ha reso le lepri più rare e per tale ragione vengono importate dai paesi dell’Europa dell’Est, dall’Argentina o allevate.

Il momento migliore per acquistare e consumare il coniglio è l’inverno: infatti, in questa stagione, i conigli sono nell’età ottimale, né troppo giovani, né troppo vecchi.
Generalmente si trova in vendita intero o a pezzi in macelleria. La parte anteriore (il dorso e le spalle) è la meno carnosa; lungo il costato infatti non c’è molta polpa e per tale motivo queste parti sono adatte ad essere cotte in umido. La seconda metà, posteriore, è composta dall’ultima parte del dorso e dalle cosce: si presta alle cotture arrosto, così come la sella e la lombata.
La lombata è la parte più pregiata e polposa e, se disossata, è ottima anche farcita.
Prima di cucinare il coniglio è necessario frollare la sua carne in un luogo fresco e asciutto per almeno tre giorni. Successivamente dev’essere lavato con cura, eliminando eventuali peli residui.
Se il sapore del coniglio viene ritenuto un po’ “selvatico” è anche possibile, prima della cottura, marinare le carni in acqua e aceto bianco, per toglierne il caratteristico odore e ammorbidirlo.



Nella specifica preparazione del Coniglio in umido, non vi sono tracce nei ricettari antichi, ma più che una ricetta non è difficile immaginare che questa modalità di cottura sia nata piuttosto come una necessità: nei primi periodi in cui l’animale veniva allevato, erano d’uso frollature velocissime e, di conseguenza, cotture lentissime, in pentole di coccio.
Un’altra importante motivazione per la cottura dello stesso in umido è perché, se cotto al forno, le sue carni magre rischierebbero di diventare troppo secche. È necessario insaporirle con spezie e aromi, visto il suo sapore delicato e tagliarlo a pezzi regolari, così che sia avvolto bene dagli aromi e ne benefici.
Per questa pietanza in umido è previsto l’uso di ogni parte dell’animale. La cottura prolungata e delicata, grazie alla presenza della componente liquida, permetterà di ottenere una carne soda ma morbida e succosa; avviene su fuoco molto moderato, che permette alla salsa di pomodoro di sobbollire e di cuocere con delicatezza la carne. Per evitare che la salsa asciughi troppo, ci aiutiamo con del brodo vegetale, un sapore che non invade e che lascia spazio ai profumi di erbe mediterranee.

Variazioni del Coniglio in umido classico sono soprattutto di carattere regionale:
  • il coniglio in fricassea, che viene ricoperto con una salsa a base di uova;
  • il coniglio all’ischitana, dove la carne incontra il pomodoro fresco e le note aromatiche del basilico;
  • il coniglio alla ligure, che prevede l’utilizzo di olive locali ad insaporire e ad aiutare a limitare quel sapore un po’ selvatico caratteristico;
  • il coniglio alla cacciatora, per il quale esistono più versioni, che differiscono l’una dall’altra per pochi ingredienti.
CONIGLIO IN UMIDO



Ingredienti per 6 persone:

1 coniglio tagliato a pezzi
500 ml di brodo vegetale (sedano, carote, cipolle)
½ bicchiere di olio extra vergine di oliva
½ bicchiere di vino bianco
1 rametto di rosmarino
1 spicchio di aglio
2 foglie di alloro
la buccia di mezzo limone non trattato
sale e pepe q.b.
500 ml di passata di pomodoro

Procedimento
Tagliare il coniglio a piccoli pezzi.
Mettere i pezzi in una ciotola e aggiungere l’ olio, il vino e un trito di rosmarino, aglio, buccia di limone, sale e pepe. Lasciare macerare per una notte intera in frigo.
Togliere dal frigo 2 ore prima di iniziare la cottura.
In una pentola di coccio versare il liquido della marinata e i pezzi di coniglio, facendoli rosolare fino a quando il vino non sfumerà.
Unire poi la passata, l’alloro e 300 ml di brodo, portare ad ebollizione e lasciare cuocere per almeno 2 ore (dipenderà dalla grossezza dei pezzi del coniglio) a fuoco molto lento, aggiungendo ancora del brodo caldo se il coniglio si dovesse asciugare troppo.
Nelle tavole venete, si serve con della polenta gialla tenuta morbida.
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10 ottobre 2016

Pan coe ciccioe



Inizia oggi per il Calendario del Cibo Italiano di AIFB la settimana del pane, ambasciatrice d'eccezzione Valentina Venuti... e chi se non lei?!


Alla definizio di pane wikipedia scrive:
"Il pane è un prodotto alimentare ottenuto dalla fermentazione, cui segue una lievitazione, e successiva cottura in forno di un impasto a base di farina di cereali, acqua, confezionato con diverse modalità, arricchito e caratterizzato frequentemente da ingredienti prettamente regionali.
Ha un posto fondamentale nella tradizione mediterranea come componente primario dell'alimentazione, al punto che il termine stesso può diventare sinonimo di cibo o di nutrimento, non necessariamente fisico. Nella cucina più antica si usava il termine cumpanaticum (oggi companatico) per indicare ogni preparazione che poteva accompagnarsi al pane, sottolineando il suo ruolo fondamentale."

Per noi veneti il pane corrisponde allo "schissoto o schizzoto". Il suo nome deriva dalla sua forma schiacciata dovuta alla mancata lievitazione dell'impasto. Lo schissoto è un pane condito, non lievitato, prodotto con farina, grasso di oca o di maiale o burro, oppure l'insieme di alcuni grassi. Viene aggiunto inoltre zucchero, sale ed acqua. Alcuni aggiungono inoltre grappa o brandy.

Gli ingredienti vengono impastati e successivamente l'impasto viene steso con il mattarello ad un'altezza di circa 3 cm, viene poi inciso con il coltello a piccoli rombi, messo sulla placca da forno e portato a cottura.

Di solito lo si usa accompagnato da affettati e formaggi, immaancabile negli antipasti.

La ricetta di Erica la trovate in questo post.



Io ho decido invece di proporvi dei semplici panini da fare con le cicciole, che non sono altro che il grasso di maiale messo a cuocere, filtrato più volte e poi usato per fare il pane. Di solito il grasso filtrato una volta veniva messo nell'impasto, ma io ho cercato di alleggerire un pochino la ricetta.

Per la farina ho usato una 00 Selizione Casillo con 10 g di proteine per 100g di farina.
In merito al lievito io ho usato quello granulare, nulla toglie che potete utilizzare quello di birra o il vostro lievito madre.

INGREDIENTI:

600 g di farina 00 selezione Casillo;
400 g di acqua (circa);
1 cucchiaio di sale iodato;
circa 200 gr di ciccioli tagliati a dadini.

Procedimento:

Mettete la farina nella planetaria con il lievito e con l'aiuto del gancio iniziate ad amalgamare. Aggiungete l'acqua a più riprese, in relazione a quanta ne chiede il vostro impasto, ma cercate di restare attorno al 60% di idratazione. Aggiungete ora il sale e per ultimi i ciccioli fatti a dadini.

Impastate fino a quando sarà ben incordato, e sarà quasi vellutato.

Riponete in una terrina coperta da pellicola e fare lievitare fino al raddoppio, in luogo fresco.

Io ho impastato la sera e ripreso il tutto il mattino successivo.

Riprendete l'impasto e ricavatene delle palline dal peso di circa 50-60 g l'uno, lasciatele lievitare nuovamente per circa 2-3 ore coperte da pellicola.

Fare un piccolo taglio sulla superficie ed ed infornate a 250° fino a cottura.





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9 ottobre 2016

Dolci ricordi...



Oggi il Calendario del Cibo Italiano di AIFB festeggia la Polenta, ambasciatrice eccezzionale Cinzia Donadini del blog Essenza in Cucina.


Lo so benissimo che la foto non è di certo il massimo, avrei potuto impiattarla in maniera più moderna, in piatti particolari e con decorazioni che l'avrebbero resa molto più accattivante, ma non avrebbe espresso di sicuro l'essenza del connubio di questi due ingredienti. La polenta e lo zucchero.

Sono cresciuta in casa con i miei nonni ed almeno una volta alla settimana, si preparava la polenta. Era solitamente in abbinata allo spezzatino di musso o di manzo, al baccalà alla veneziana, alle seppie in umido e a tutte quelle pietanze che avessero un intingolo e dove grazie alla polenta si poteva raccoglie tutto, senza lasciare nel piatto una benchè minima traccia.

A casa mia il rito della polenta era quasi solenne, mia nonna la preparava nel paiolo di rame e la rimestava per circa 40-50 minuti. La cottura, come per tutte le ricette era preparata ad occhio... la polenta quando è pronta, diceva mia nonna, la si vede e la si sente.
Io mi chiedevo sempre, cosa sentisse poi da questa polenta... solo ora a distanza di trentanni la riesco a capire.

Poco prima della cottura, mia nonna mi diceva "Marianna è quasi pronta..." In pochi secondi avevo il piatto in mano e il barattolo dello zucchero davanti a me. La porzione era leggermente generosa... togliamo pure il leggermente... qualche cucchiao di zucchero semolato, che in pochissimo tempo si scioglieva. Sono sincera non c'era piatto paragonale alla polenta con lo zucchero.

Quando penso alla mia infanzia, quando penso ai miei nonni, a tutto quello che facevo durante il pomeriggio con mia nonna, alle preparazioni fatte insieme per le cene e i fine settimana, questo semplice piatto racchiude in se tutto ciò.

Ingredienti per 4 persone:

500 g polenta;
1 cucchiaio di sale grosso;
1 cucchiaio d'olio di oliva;
zucchero semolato.

Procedimento:

Mettete sul fuoco l'acqua, quanto sarà arrivata a bollore aggiungete il sale ed il cucchiaio d'olio. Versate poi a pioggia la polenta e rimestate fino quasi a  cottura. Dopo circa 40 minuti, adagiate la polenta in quattro piatti o ciotoline e spolverizzate con zucchero semolato, a vostra discrezione.

P.S. Mia nonna diceva che l'olio serviva a non fare i grumi, io continuo la tradizione.



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3 ottobre 2016

Sbrisolona in veneto






Non è solamente l'orgoglio Veneto che ci fa dire che la storia della Sbrisolona iniziò prima con la Fregolota in Veneto.
La Sbrisolona, dolce tipico delle terre che videro come padroni e Signori I Gonzaga e la loro discendenza per molti secoli.


La Sbrisolona dolce tipico non solo a Mantova, centro della Signoria e del Ducato dei Gonzaga ma giù fino al nord ovest dell'Emilia, nel Ducato di Guastalla, nella meravigliosa città di Parma)
Oggi nel calendario del cibo Italiano AIFB, è la giornata della Sbrisolona , dolce tipico che ben ci verrà raccontato dall' ambasciatrice Laura Bartolini, leggete qui il suo post.
Intanto, l'amica Paola Sartori ed io da brave Venete o meglio da brave discendenti della Serenissima

😉 ci arroghiamo il diritto di dirvi che la Sbrisolona prima era una Fregolota....

Un giorno di tanti secoli fa un mercante della Serenissima partì dalle sue terre di Castelfranco Veneto con un bel carro trainato da cavalli ricco di stoffe, spezie provenienti dai mercati orientali, farina di mais e un bel cesto pieno di cose buone preparate dalla moglie, tra cui una bella fregolota e qualche bottiglia di Torcolato.
Strada facendo il mercante Veneto si centellinava la Fregolota, spezzandone piccoli "pezzi di bricioloni", e li intingeva in un buon bicchiere di Torcolato, un buon vino della sua (nostra) terra, prodotto dalle uve Vespaiolo bianche appassite.
Una volta arrivato al Ducato di Gonzaga, fece grandi affari, vendette tutta la mercanzia che si era portato.

Felice degli affari conclusi , offerse a tutti il buon Torcolato con la Fregolota della moglie.

Il destino volle che passasse in quel momento il cuoco pasticciere dei Gonzaga, che volle assaggiare queste "Sbrisole"di dolce e se ne innamorò.
Chiese la ricetta e volle rifarla a modo suo ai suoi Signori, non disse però che la ricetta era di una casalinga Veneta moglie del mercante, ma disse che era sua invenzione e la chiamò Sbrisolona .. sempre da fregola-briciola deriva 😉 



Ecco perchè i Mantovani pensano che la Sbrisolona sia una loro tradizione 😉
Forse il mercante non era partito con il cavallo ma con il Bucintoro, battello fluviale per la navigazione ....a quel tempo si percorrevano più i fiumi che le strade 😉
Potrebbe esserci anche un altra versione del perchè la fregolota è diventata Sbrisolona ...ora ve la racconto.
Capitò che Eleonora Gonzaga sposata in Asburgo passando per le terre venete per andare a passare il Natale con la famiglia d'origine, ospite di una ricca famiglia Veneta in una delle meravigliose Ville sparse nel nostro territorio, assaggiasse la Fregolota, tanto le piacque che la volle portare alla famiglia in quel di Mantova e così inizia la storia della Sbrisolona...


Insomma cambiano i tempi, cambiano i gusti ma rimane sempre la voglia di condividere le cose buone con chi si ama 😉 ....per questo questa storia l'abbiamo voluta a 4 mani !
 

"Le storie sono libere interpretazioni della sottoscritta leggendo "La Cucina Vicentina" di Amedeo Sandri e Maurizio Falloppi e molti altri libri che parlano della storia degli Italiani a tavola"




Ingredienti per 6 persone
200 gr di Mandorle dolci
200 gr di Farina 00 ( si può anche fare 100 farina 00 e 100 farina di mais Maranello versione molto sottile ) 

200 gr di zucchero semolato
1 grosso uovo ed un tuorlo ( di una gallina felice e non sfruttata)
50 gr Panna liquida freschissima
1 noce di burro per la teglia
una presa di sale
una stecca di vaniglia


Preparazione
Vi è chi preferisce sbollentare le mandorle e pelarle, la nostra versione no.
Un tocco quasi magico a questo dolce sarebbe dato dall'aggiunta di due o tre mandorle amare all'impasto al quale conferiscono un inconfondibile aroma.
Passate in un telo inumidito le mandorle, tritatele grossolanamente,
poi mescolatele alla farina, allo zucchero ed ad un pizzico di sale.
Fate la fontana e mettetevi al centro l'uovo intero e il tuorlo, l'interno della stecca di vaniglia e la panna fatta cadere a grosse gocce in modo che si formino i fregolotti, cioè grossi bricioloni che si disporranno in una teglia larga e bassa , precedentemente imburrata.
Tenete presente che lo spessore del dolce deve risultare alla fine di circa un centimetro e non di più.
Mettete il recipiente in forno già caldo a 190° per circa 40 minuti o poco meno, sino a quando cioè la torta sarà diventata in superficie di un bel colore nocciola.
Levatela allora dal forno e lasciatela intiepidire nella teglia, prima di staccarla molto delicatamente ed appoggiarla su una gratella a raffreddare.


Gustatela con un buon Torcolato doc oppure con Un fiore D'arancio delle colline Euganee




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